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Progetto "Foto&Racconti": L'America (Rho-Torrisi)

Progetto "Foto&Racconti": L'America (Rho-Torrisi)

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Progetto "Foto&Racconti": L'America (Rho-Torrisi)

L'America

Per una migliore visione cliccare sul link per la versione PDF:
http://www.francescotorrisi.com/Foto&Racconti/Rho_Torrisi_la_America.pdf


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Fotografia di
Racconto di Francesco Torrisi
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Il mio ricordo più vivido è quello di mio padre davanti al “negozio” di frutta e verdura sulla vecchia Mulberry Street a Manhattan. Il negozio si riduceva in una specie di carretto, una semplice tavola di legno su piccole ruote, che ogni mattina veniva portato fuori dal cortiletto di casa a forza di braccia e veniva piazzato sulla banchina. Veniva poi sapientemente addobbato con vecchie casse di legno e ceste di vimini intrecciato che servivano ad esporre le mercanzie. Era così che funzionavano le cose negli anni venti a Mulberry Street.
Negli albori di questi ricordi io sono in braccio a mia madre, mentre aiutava, con l’unica mano libera, mio padre a sistemare tutte le ceste sopra ed intorno al carretto, ceste che poi venivano riempite con la merce migliore da vendere. Una girandola di colori e odori che mi attiravano alla stregua di un bellissimo gioco. Poi mia madre rientrava a casa per continuare le faccende domestiche e mio padre iniziava la sua giornata di lavoro che si concludeva solo al calar del sole. La sua pausa pranzo era quel breve attimo in cui mia madre gli portava, scendendo i cinque scalini che dividevano l’uscio di casa con il “negozio”, un tegamino di alluminio vecchio, storto e annerito dal fuoco della cucina a legna, ma bello fumante di ottima zuppa. A far compagnia al tegame c’era un bel tozzo di pane accuratamente avvolto in un fazzoletto di cotone bianco, candido come la neve. Mio padre, il pane, lo voleva raffermo del giorno prima. Mi ricordo sempre mentre spiegava a mia madre che il pane fresco gli spariva nel brodo della zuppa calda e perdeva troppo tempo a cercarlo. Aveva da lavorare, lui. Quello duro con un colpo di cucchiaio era bello e catturato. E poi il pane, il giorno dopo, gli sembrava più buono.
I miei erano piemontesi e lo sono sempre rimasti, anche se ormai sepolti in “America”. Io invece sono nato qui e sono americano con loro grande disappunto, come se mi mancasse una parte importante del mio corpo, una mano o una gamba . Quindi, com’è più giusto dire, “I was born in U.S.A”. Ho sempre cercato di spiegare ai miei che il termine “America” è troppo vago e grande per definire quell’isola, Manhattan, che li ha accolti dentro i suoi confini per la maggior parte della loro vita. E che non hanno mai osato varcare. Ma per loro è sempre rimasta “l’America e basta”. E non era casa loro. Quella era in Piemonte.
Crescendo, crebbero anche i racconti e le storie che mio padre ci raccontava ogni domenica, tornando a piedi dalla funzione della messa.
Mio padre era tra i pochi fortunati che potessero permettersi di non lavorare la domenica. Noi, rispetto agli altri, potevamo definirci benestanti.
Lui mi diceva che non era nato benestante, anzi era veramente povero e per dare significato a quel termine puntualizzava sempre “non come voi che mangiate tre pasti al giorno. Io, se ero fortunato, li mangiavo in una settimana, tre poveri pasti”. Ci raccontava sempre le sofferenze della Grande Guerra, la distruzione, la morte sempre presente, i campi vuoti, le trincee piene, le malattie infinite, la fame perenne. Ci diceva che a quel tempo sentire fame era un bene. Significava che avevi ancora la forza e la voglia di vivere. Quando passava la fame voleva dire che si era arrivati alla fine.
Fu per tutto ciò che mio padre e mia madre, appena sposati, decisero di lasciare una casa che ancora non avevano e che non avrebbero mai potuto avere e di imbarcarsi su un grosso vapore che andava in America. Dove di preciso e dopo quanto tempo, non lo sapevano. Sapevano solo il perché: per fame. E per voglia di vivere.

Mi raccontavano sempre del loro arrivo ad Ellis Island. Per diverse settimane pensarono che quella fosse la loro America. Passando in un buio e nebbioso giorno di inverno dalla nave ad un immensa stanza grande quanto un intero palazzo, non seppero per tutto il tempo che rimasero lì che quell’isola era soltanto un fazzolettino di terra che rischiava di affondare da un momento all’altro per tutta la gente che ci stava su. Sopravvissero dividendo tra loro e le altre persone quel poco mangiare e quella poca acqua che avevano portato con loro scendendo dalla nave. Sopravvissero quelle settimane anche con le poche parole ed i tanti sguardi di conforto che si scambiarono con quelli che avevano accanto. Tutti accomunati dalla stessa speranza e dalla stessa paura: l’America!
Dopo diversi giorni venne finalmente il loro turno. Sino a quel momento erano stati l’uno vicino all’altro tenendosi per mano. Per paura di smarrirsi tra tutta quella gente che mormorava dialetti strani ed incomprensibili intorno a loro e di non ritrovarsi mai più. Quando si presentarono davanti all’ufficiale dell’immigrazione, intimoriti come non mai, trovarono invece un uomo che rivolgeva loro le domande parlando una lingua a loro quasi comprensibile. Poche domande: come ti chiami? Giuseppe Valentini. E lei è tua moglie? Sì. Il nome? Antonia. Che sai fare? So fare trincee. Va bene, starai a scavare la metropolitana... sarai “muratore”.
Li fecero uscire e con un piccolo vaporetto li portarono a “terra”. Scoprirono poco dopo che era in pratica un’altra isola, ma solo più grande dell’altra. Il colmo di un piemontese, che l’acqua la vedeva solo bollire in pentola, era sapere di essere circondato da un mare immenso che avevano visto e temuto per ogni giorno di navigazione per giungere lì. Un elemento che non apparteneva a loro e mai sarebbe appartenuto.
Vennero a sapere, quando mio padre si presentò al lavoro, che in America il suo nome da quel giorno sarebbe stato Joe Valenti perché era più corto e più facile da pronunciare per tutti quanti e mia madre divenne Antony anche se donna. Quando cominciai a frequentare la scuola capii che quel funzionario di Ellis Island che preparò loro i documenti per entrare in America non conosceva la lettera H perché mancava nel nuovo nome di mia madre.

Mio padre e mia madre non perdevano l’occasione per raccontarci sempre del loro viaggio per arrivare in America. Ed il racconto domenicale sulla via di ritorno a casa partiva sempre dal mare. La nave. La stiva. La piccola valigia. I vicini di branda sulla nave. I vicini di branda sulla terraferma. Quanto furono aiutati da altri disperati e quanto aiutarono gli altri disperati.

Quando mio padre morì, era riuscito a creare una piccola catena di negozi di specialità alimentari, tutti cibi importati dall’Italia. Erano sette negozi in tutto con tanti dipendenti, tutti rigorosamente, se non italiani, comunque arrivati dal mare come lui.
I suoi racconti si sommarono a tutti quelli che man mano venivamo a conoscere negli anni. Il luogo comune a tutti era e rimaneva il mare. Questo sconfinato fluido che per la gran maggioranza di quelli che lo attraversavano era una sconosciuta fonte di paura e nello stesso tempo di speranza. Perché alla fine del viaggio c’era l’America. C’era la vita.

Io sono nato quindi americano, con tre pasti assicurati, parlando italiano e studiando in inglese. Grazie a mio padre e a mia madre (che poi riuscì a farsi correggere il nome in Anthony ma non riuscì mai ad avere un nome femminile) sono un ricco americano. Per mio padre sono sempre stato un immigrato come lui, col piccolo neo di aver saltato l’esperienza del mare ed essere nato direttamente al destino, in America
Mio padre l’America l’ha sognata, agognata, ricercata, trovata e soprattutto realizzata. Ha sempre avuto un occhio particolare rivolgendosi a coloro che avevano intrapreso la via del mare come lui. Da qualsiasi porto di partenza si fossero imbarcati per lui non faceva differenza, aveva sempre gli occhi lucidi di commozione, guardandoli in faccia.
Io sono stato educato così. Io ho continuato a cercare l’America pur essendoci nato. Ora ho una catena di 620 punti vendita distribuiti dalla costa est fino a quella occidentale degli Stati Uniti. E ho sempre voluto aiutare coloro che si presentavano da me avendo nei loro occhi quello sguardo che io conosco bene, lo sguardo di mio padre quando sognava la sua America. E coloro che ho aiutato in questi anni a trovare la propria America mi hanno sempre ricambiato, anche se a me un semplice grazie appena sussurrato bastava ed avanzava. Questo perché nel mio cuore ero io che li ringraziavo, sapendo di farlo anche a nome di mio padre e di mia madre. Era il mio ringraziamento per essere un “immigrato” nato negli States che aveva trovato l’America.

Ora ho smesso di lavorare. La mia catena di negozi è tanto lunga che ormai è arrivata in mano ai miei figli e persino ai nipoti. Tutti “immigrati”. Tutti ancora a sognare l’America.

Ho voluto finalmente viaggiare. Non ho voluto volare. Ho ripreso il mare guardando dal ponte per ogni giorno di viaggio, quel fluido magico che aveva tanto spaventato, ma anche fatto sognare, mio padre e mia madre.

Sono in Italia. Sono a casa. Ho ritrovato parenti, cugini e zie che non sapevo di avere. Nel mentre giro l’Italia e imparo a conoscerla meglio.

Però di recente c’è qualcosa che mi turba e mi fa stare male. Non c’è telegiornale o quotidiano che non parli di sbarchi. Eccolo di nuovo, il mare. Leggo di barche bucate, di motori spompati, di gente dispersa, di campi più piccoli di Ellis Island dove rinchiudere la gente a migliaia. Sento parlare di muri, sento parlare di respingere questa fiumana. Sento parlare di leggi e di diritti. Ma non vedo più sguardi intorno a me che ricordino quello di mio padre.

Ho deciso di prendere l’aereo e sono andato giù, sul mare che porta queste speranze di vita o resti di morte sulle spiagge italiane.

L’ho voluto guardare, quel mare, per tutti quelli che non l’hanno potuto vedere. L’ho abbracciato, quel mare, per tutti quelli che non l’hanno potuto abbracciare. Io ho voluto portare il mio sogno a tutti coloro che hanno perso il proprio in quel mare.
Perché tutti abbiamo bisogno di vivere, perché tutti abbiamo bisogno di sognare la nostra America.

Questo è il vero sogno universale. Allora che aspettate? venite... sognate l’America ovunque essa sia e dovunque voi siate.

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