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Progetto "Foto&Racconti": Il pescatore pazzo (Bisetti-Torrisi)

Progetto "Foto&Racconti": Il pescatore pazzo (Bisetti-Torrisi)

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Progetto "Foto&Racconti": Il pescatore pazzo (Bisetti-Torrisi)

Il pescatore pazzo

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http://www.francescotorrisi.com/Foto&Racconti/Torrisi_Bisetti_Il_Pescatore_pazzo.pdf

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Fotografia di Giorgio Bisetti
Racconto di Francesco Torrisi
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Ho lavorato tutta una vita per dare una esistenza dignitosa alla mia famiglia e poter realizzare il mio sogno nel cassetto. La prima è una meta ovvia per molti, la seconda motivazione, il mio sogno segreto, è altrettanto cosa scontata e di poche pretese: io ho sempre sognato pescare e volevo, una volta raggiunta la pensione, passare il resto della mia vita pescando.
Ho realizzato e raggiunto il mio primo obiettivo. Oggi la mia famiglia è felice e appagata anche grazie ai miei sacrifici. I miei figli hanno studiato, si sono sposati e posso dire che sono un felice ed orgoglioso nonno di quattro splendidi nipotini, che non aspetta altro che poterli vedere già ben sicuri sulle loro gambette e cresciuti quel tanto per poterli portare con sé. A pesca naturalmente.
Una volta smessa la tuta da operaio, mi sono munito del vestiario più tecnologico che sono riuscito a comprare idoneo al mio scopo: un paio di ciabatte, pantaloncini e t-shirt, cappellino e una splendida canna da pesca. Non vi dirò dei mulinelli e di tutti gli ami ed esche, dalle più semplici, fatte con le mie mani, a quelle progettate dal computer che sembrano provenire da un altro pianeta, che ho nella mia cassetta da pesca. Questi sono vanti che riservo solo agli altri pescatori, gli unici che possano capire. E gratificarmi con un pizzico della loro invidia.
Ma la mia “Chicca”, quella che non mi ha fatto dormire più di una notte per la difficoltà della scelta, è stata la mia barchetta e l’ho voluta chiamare persino così. Piccola naturalmente, ma sicura e spaziosa per le mie esigenze di pescatore che lascia la spiaggia per avventurarsi in mare, anche se di poco, “aperto”.
Quindi, dal giorno in cui diventai libero di disporre del mio tempo, realizzai anche il secondo obiettivo della mia vita. Non c’è giorno, bello o brutto che sia, che io non sia armato della mia canna, sulla mia barchetta se il mare lo permette, o sulla splendida spiaggia che c’è sotto la scogliera, intento a pescare.
Ormai, mi dicono gli amici, faccio parte di questo ambiente, perfettamente integrato nella scenografia naturale del luogo in cui pesco. Forse, se non vedessero più il faro sul promontorio, sarebbero meno stupiti del non trovarmi più sulla spiaggia o sulla barchetta con la canna da pesca tra le mie mani.
Tutto è filato liscio per tanto tempo. Sino a pochi giorni fa. Qualcosa ha cambiato la mia vita.
Ero tranquillo sulla mia Chicca, poco distante dalla riva, a godermi il dondolio delle pochissime onde di quel giorno. Il sole aveva superato lo zenit da tempo ed ormai iniziava la sua fase calante, pronto ad andare a dormire dietro l’orizzonte. Sicuramente, laggiù, oltre la mia vista, ci sarà stato un altro pescatore che come me lo aspettava ogni mattina con trepidazione per potersi armare anche lui di canna e di lenza.
Comunque, in quel giorno di fine autunno gustavo un sole che mi ricordava ancora l’estate appena passata. Era tanto dolce il suo tepore che non badavo più neanche alla lenza gettata in mare. Così come faccio solitamente alla fine della mia giornata di pesca, salii pigramente la cima della mia ancora e cominciai a lasciarmi trasportare altrettanto pigramente dalla leggera corrente. Lo facevo sempre prima di riporre definitivamente a riposo la mia attrezzatura da pesca. Non sia mai che qualche pesciolino, giusto quel giorno, avesse deciso di starmi alla larga e così, invece di aspettare che la fortuna venisse fin sotto la mia barca, provavo ad andarle incontro io, prima di avviarmi definitivamente per la via di casa. Noi pescatori viviamo di questi piccoli gesti scaramantici pur sapendo, nel nostro cuore, che poco hanno che fare con il successo di una buona pesca. Ma provarci, dopo tutto, cosa ci costa?
Guardavo pigramente il ghirigoro che la mia lenza lasciava sull’acqua, trascinata dall’abbrivo della mia barchetta, fantasticando e cercando di riconoscere in quei tenui giochi del mare, solcata dal filo, una forma che mi ricordasse un oggetto. Era un mio piccolo gioco, un’abitudine consolidata negli anni, quando ad un tratto vidi uno strano riflesso giusto sotto la superficie dell’acqua che stavo fissando. Mi girai a guardare se il sole, rosso e basso sull’acqua, fosse stato per caso oscurato da qualche nuvoletta di passaggio. Era perfettamente solo nel cielo, così come lo ero io in quel tratto di mare.
Non ci feci più caso e ritornai a fissare la mia lenza scivolare sull’acqua. Eccolo di nuovo, questa volta non tanto un cambio cromatico, ma più un bagliore, un lampo che finì persino con un sordo tonfo che fece vibrare quel piccolo guscio di plastica che chiamavo barca. Istintivamente mi misi seduto dritto aggrappandomi con entrambe le mani sui bordi e volsi lo sguardo a destra e a sinistra. Non vidi niente. La canna, libera dalla mia presa, dondolava sul fondo piatto seguendo il ritmo del mare. Cominciai a guardarla pensandola responsabile del rumore appena sentito, speravo dentro di me che fossi stato io a generare quel tonfo facendola cadere. Avevo appena mosso la mia mano per raccoglierla, quando arrivò il primo urto. Mi sembrò di essere stato sbattuto su uno scoglio affiorante, ma ero distante da qualsiasi scoglio e poi, lì, il mare era più che profondo. Mi trovai a guardare i miei piedi, come se i miei occhi potessero passare attraverso il fondo della barca e scrutare sino al fondale marino. La mia canna da pesca era persino sparita, l’urto l’aveva fatta arrivare fin sotto il sedile di prua. Mi allungai il più possibile e la presi fissandola nel portacanna da traino, e per non rischiare di perderla in mare la collegai anche con il solido cavetto di sicurezza alla bitta di prua della barchetta.
Intanto il mare intorno alla barca aveva cambiato colore e sembrava mutarlo di continuo, a ondate. Mi affacciai a guardare sotto la barca e tutto attorno ad essa. Nel mare calmo l’unica cosa agitata era quel flusso nero e scuro che fluttuava tutto attorno a me, spostandosi come solo un’ombra maligna riesce a fare nell’incubo peggiore che si possa sognare. Mi uscì a voce alta l’unica domanda che c’era da fare: che diavolo sta succedendo?... Fu allora che partì la canna.
Il mulinello parve un’auto da corsa che scattava al verde del semaforo, il rumore era tale che mi sembrò che stesse per scoppiare. Una immane forza lo stava svolgendo, lo fece anche uscire dal suo alloggiamento. E’ una visione che oggi ricordo come se fosse al rallentatore. Il sibilo del mulinello. La lenza che vibra. La canna curvata da quella enorme trazione. Lo schiocco che fece quando scappò fuori dal suo posto. Il volo che fece davanti ai miei occhi finendo a mare davanti la prua. Poi ricordo solo il cavo di sicurezza della canna che si tendeva mentre si proiettava dalla bitta di prua dritto e teso nel mare, le gocce di acqua sparate nell’aria quando raggiunse la sua massima estensione e una spinta violenta a tutta la barca che mi fece volare all’indietro. Anche se ero seduto, ricordo solo la sensazione di stare a precipitare come se stessi cadendo nel vuoto. Ricordo le mie mani annaspare davanti ai miei occhi cercando quell’appiglio che l’aria non potrà mai dare. Poi, ricordo per ultimo un velo nero che riempì la mia vista.
Quando riaprii gli occhi vedevo ancora nero. L’attimo successivo arrivò un dolore lancinante alla testa. Lentamente mi rimisi seduto e portai le mani alla nuca. Sentii al tatto la mano bagnata e poi vidi le stelle. Le collegai al dolore che provavo, quando, assieme alle stelle, vidi anche un piccolo spicchio di luna. Capii che il buio era la notte e non il frutto dell’enorme bernoccolo che avevo pulsante dietro la testa. Feci un paio di profondi respiri, aiutato dalla brezza che mi colpiva in viso. Mi voltai a guardare il mare. Nero come la pece, fermo come la pece. Ma il vento che mi rinfrescava il volto, allora, da dove veniva? Mi girai indietro e vidi la scia lasciata da Chicca brillare di miliardi di piccole lucciole. Mi stavo muovendo. Ecco il perché di quel vento leggero. Presi il cellulare dalla tasca e lo guardai. Era un’ora tale, che normalmente sarei stato già a letto a dormire da tempo. Con la luce fioca dello schermo vidi due cose: le mani rosse di sangue e la mancanza di segnale. Mi toccai di nuovo la nuca e giusto in cima al piccolo monte che si era formato sentii il taglio profondo. Fortunatamente non sanguinava più. Mi girai di nuovo verso la scia e vidi sul bordo dello specchio di poppa il mio sangue rappreso. Capii di essere svenuto.
Usai la luce del telefono come una torcia scrutando la barca. C’era tutto tranne la canna. A quel punto ricordai tutto. Ricordai l’urto, rividi il mulinello partire, la canna volare, il cavo di sicurezza tendersi a prua. Mi mossi lentamente guardando oltre la prua. La mia barca è lunga due passi, me ne bastò uno solo per vedere il cavetto che teneva in sicurezza la canna teso e vibrante fendere l’acqua davanti la barca.
Il pesce della mia vita mi stava portando a spasso con lui. Il dove non mi era dato saperlo. Sicuramente lontano, tanto da non poter usare il mio cellulare per una chiamata.
Rimasi seduto ad osservare la prua. Solcava tranquilla l’acqua immobile in quella sera autunnale che profumava di estate. Non sapevo che fare. Presi il coraggio con entrambe le mani, anche se sporche di sangue, e mi affacciai a prua. Toccai la cima che assicurava la canna da pesca per vedere se riuscivo a recuperarla, pensavo che se fossi riuscito ad averla tra le mie mani avrei potuto risolvere le cose. La tirai. Sembrava piantata nel mare. Tirai più forte, ma mi scappò di mano e suonò come una corda di una chitarra. Capii che ero inerte ed impotente di fronte a quella forza incredibile che mi portava con sé con tutta la barca.
Decisi per l’unica cosa possibile che mi rimanesse da fare. Presi il coltello che tenevo nella mia tasca e recisi la cima. Persi la canna con ciò che c’era attaccato.
La mia barca parve prendere finalmente un respiro alzando la prua dal livello dell’acqua. Cominciò progressivamente a perdere abbrivo fino a fermarsi. E fu un silenzio da far male alle orecchie. Sentivo il mio respiro. Sentivo lo sciabordio dell’acqua sulle fiancate della mia barca. Mi sembrò di sentire anche la voce di una sirena cantare lontano, ma sicuramente era la voce del bernoccolo che avevo in testa che continuava a gridare.
Presi i remi e li inforcai negli scalmi. Il nero assoluto mi confondeva. Dov’era la mia casa? Sicuramente dall’altro lato di dove “lui” mi stava portando. Girai con poche remate la prua rivolgendola sul riflesso della luna che illuminava ancora quel che rimaneva della mia scia. Fu quel riflesso la strada che decisi di percorrere remando. Un tappeto luminoso in un mare di pece. Mi convinsi che quella fosse l’unica strada di casa. Mi lavai le mani insanguinate con l’acqua di mare e cominciai a vogare .
La strada di luce che la luna segnava a prua passava sopra la barca e si perdeva dietro la poppa. Mi fu facile vogare tenendo la rotta grazie alla luna. Le ore passarono, ma mai rivolsi il pensiero a cosa e soprattutto a chi mi avesse portato così lontano. Lentamente ma costantemente continuai a muovere i remi. Il sonno quella notte non venne a farmi compagnia. Lo fece solo la luna. Alla fine arrivò la stanchezza e con essa un primo bagliore di luce. Il pescatore a cui prima avevo mandato il sole mi stava restituendo il favore. Cominciai a vedere la costa e la stanchezza parve finire. Arrivai al molo col sole già alto e vi trovai la mia famiglia ad aspettarmi. Tutti presenti, compresi i nipoti. Mi videro e mi vennero incontro. Li abbracciai e notarono il sangue.
Il bernoccolo fu per tutti l’unico responsabile di quella strana sortita notturna. Non seppero mai di quella cosa che aveva deciso di portarmi con sé. Dopotutto non seppi mai neanche io che cosa fosse realmente e dove volesse portarmi.
I miei figli misero la barchetta sul tetto dell’auto e mi accompagnarono a casa.
La mia Chicca ora è in giardino e trasporta le rose che cura mia moglie in giro sul prato di casa.
Ho ripreso a pescare. Ho ricomprato subito una nuova canna e un mulinello più grosso. Ma ho cambiato il mio stile di pesca. Gli amici ancora ridono di me e del mio bernoccolo che stenta a sparire. Resterà con me, penso, fino alla fine. Ma a me sta bene così. Per tutti è sua la colpa se oggi pesco da qui. Lo so benissimo che i miei amici che mi vedono pescare dalla cima della scogliera sussurrano tra loro che quella gran botta in testa mi ha reso un po’ pazzo. E questo pensiero mi strappa un sorriso.

Comentarios 2

  • fabrizio bertini 28/11/2011 17:46

    bellissima immagine complimentissimi+++++++++
    ciao fabrizio
  • Santino Mineo 09/07/2011 23:07

    Il buon Francesco che sta diventando una rilevazione.
    Meglio scrittore che fotografo :-)
    bravo.
    Ps gran bella foto.

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